di Ian Mac Ewan
regia Giuliano Lenzi
con Ugogiulio Lurini
scene Porciatti e Fagioli
produzione laLut
L’uomo nell’armadio cui allude il titolo è una creatura disagiata, con un passato e un presente di sofferenza, ormai metabolizzata e trasformata in una patologia cronica.
Ma anche in un’urgenza di raccontarla.
L’uomo nell’armadio è indubbiamente un caso interessante per la psichiatria. Non solo per il suo stato di disagio o per la sua apparente mancanza di una vita normale fatta anche di rapporti col resto della società, ma anche per la lucida decisione di fare del proprio passato e della capacità di leggerlo la materia di un racconto tutt’altro che improvvisato.
Si tratta infatti di un racconto ragionato, ordinato, curato anche nella scelta di un lessico “alto” che la biografia del personaggio non lascerebbe supporre: è come se l’uomo nell’armadio avesse vissuto fino a diciassette anni nel grembo materno, ha imparato a leggere e scrivere solo a diciotto anni, ha dimenticato tutto in fretta e ha passato il resto della vita facendo lo sguattero, il ladruncolo, il carcerato. Dunque ciò che non ci racconta, il momento in cui ha deciso che la sua storia meritava di essere raccontata – nel chiuso della sua camera/armadio o in un teatro; a se stesso, ad un assistente sociale o a un pubblico plaudente – è ciò che lo rende un po’ meno selvaggio e un po’ più simile ad altri ma anche ciò che probabilmente lo ha fatto rinchiudere nel suo mondo, più semplice, più gestibile di quello vero.
Lo spettacolo si svolge in un appartamento, tra una cucina regolarmente funzionante e una sala adibita a teatro, da uno scorcio di quotidianità spiata attraverso una porta a una dimensione teatralmente astratta ed evocativa, resa appena visibile da una luce livida.
L’irruzione della musica segna il compimento del dramma.
I pochissimi spettatori sono ospiti, e quasi intrappolati fra un bordo e l’altro della scena.
La foto di questa pagina è di Daniela Neri